Racconto ‘Sbadiglio’ Parte 1
Ottobre 9, 2017 7:33 pm
Leave your thoughts
Un racconto distopico. Un’epidemia, un amore e una giovane ragazza.
É tutto un sogno?
O è la realtà?
E soprattutto… come si fa a distinguere la realtà dal sogno?
Ascolta la soundtrack mentre leggi il racconto.
Clara aprì gli occhi di scatto, i brividi lasciarono gelido il corpo che stava iniziando di nuovo a percepire.
Il cuoio capelluto rabbrividì e la mano addormentata sotto la guancia formicolò. Gli occhi si abituarono all’oscurità della camera e Clara poté riconoscere nelle ombre i suoi mobili e i suppellettili appoggiati sopra che ingigantivano la propria presenza. Con lentezza si orientò. La scarica di adrenalina impedì ai suoi pensieri di ricordare il sogno dal quale si risvegliava. Il sudore sulla fronte non la rassicurò sulla qualità del sogno, e asciugandosi con la mano addormentata il viso, constatò di aver avuto solo un incubo e ringraziò con malinconia la sua mente annebbiata. Scontenta di essere al buio e suscettibile alla solitudine, i suoi pensieri divennero cupi e proseguirono percorrendo strade desolate e in subbuglio.
Era sola nelle tenebre, pensò con terrore.
Non riuscì a mantenere la calma e i pensieri, che appesantivano il suo animo, le si ripresentarono prepotentemente nella mente indebolita dallo stress. La sua vita era in tensione, sospesa, in procinto di cadere da un momento all’altro. Lo sapeva, lo riconosceva con orrore. E non sarebbe precipitata in qualcosa di prevedibile, di scontato o fino allora conosciuto, bensì nel più totale e agghiacciante ignoto. Il futuro, non così troppo lontano, l’avrebbe strappata impetuosamente dalla realtà e restituita a una vita di sciagurati. Non c’era un’alternativa, o una soluzione al problema, e per qualche minuto si consolò rannicchiandosi, curvò la schiena racimolando i pezzi del suo corpo, li trattenne con le mani tremolanti, e si abbracciò in posizione fetale.
Recuperata un po’ di calma e rassegnazione, scostò le coperte, fece scivolare il piede nudo sulla gelida mattonella e si tirò su con lentezza per evitare quel senso di vertigine e annebbiamento.
Non aveva alcun senso riposare la notte ora che avrebbe dormito per sempre, rifletté mordendosi il labbro.
Raccolse la torcia per la lettura serale dal comodino e si fece guidare dalla fievole luce.
Vagabondò scalza ringraziando le fredde mattonelle che le permettevano di stare all’erta. Sembrava alla ricerca di qualcosa che non avrebbe mai trovato. La sua passeggiata fu interrotta dal riflesso della luce su uno specchio intero e si avvicinò trepidante.
La sua figura scontornata si affacciò sulla lastra liscia dello specchio, il viso fissava con risentimento il corpo. Ormai la carne era immutabile, sarebbe stata così per sempre. Non sarebbe invecchiata e perciò non avrebbe mai visto la pelle raggrinzire, le rughe, le pieghe, la precarietà della sostanza, le cellule morte con noncuranza sostituirsi. Il suo corpo non sarebbe mai diventato decadente, la pelle non sarebbe stata scoscesa, non avrebbe perso la sua robustezza e i muscoli ben saldi e sodi, non avrebbe mai percepito quella sensazione, quello scorrere del tempo inafferrabile, il sentore di marcio. I capelli non avrebbero mai provato il colorito grigiastro, le labbra seccarsi, le ossa indebolirsi, la vista appannarsi.
In un’altra situazione forse avrebbe potuto rallegrarsene, ma non era questo il caso.
Si sfilò il pigiama, si denudò completamente e studiò le sue membra. Si accarezzò il ventre che non avrebbe mai permesso alla vita di nascere, che sarebbe stato inesorabilmente vuoto. Strinse le mani in pugno, e la freddezza suscitata dalla rassegnazione le privò anche del pianto liberatorio.
Meglio così, non doveva piangere.
Forse sarebbe stata l’ultima volta per osservarsi realmente, con molta probabilità non avrebbe più visto la sua carne con gli stessi occhi. Di solito i suoi sogni sfuocavano e sdoppiavano il suo corpo, percependosi sempre come qualcosa di irrazionale, a volte d’estraneo. E in un sogno eterno non avrebbe più osservato l’esatto colore della sua pelle d’avorio, la lucentezza dei capelli color corvino, le labbra tumide rosse come le fragole, e gli sgranati occhi solitamente curiosi e sorridenti alle novità. Quest’ultimi la fissavano con incertezza. Titubante porse la mano verso la lastra riflettente e la sua giovane mano accarezzò il suo ritratto. Solo la sua immagine sarebbe sopravvissuta nei sogni, senza sentir più nessuna corporeità. Scostò velocemente la mano dallo specchio quando se ne accorse e iniziò a palparsi le membra.
Come avrebbe potuto una sola immagine rappresentarla tutta? Come poteva essere ancora lei, senza percepire il corpo vivo e fremente? Il calore, la consistenza, il tocco…
Era condannata a vivere di sola immagine, qualcosa di totalmente artificiale.
Si allontanò dallo specchio con risentimento e si rivestì. Ormai vestita si diresse con passo felpato verso la camera dei genitori. Non voleva svegliarli. Davanti alla porta avvicinò l’orecchio al legno e origliò il russare del padre. Quel verso fastidioso prodotto dalla sua cattiva respirazione notturna fu un sollievo per lei. Non aveva mai sopportato quel russare, si stupiva di quanto fosse forte e sorrise al ricordo di quante volte gli aveva attribuito la sua insonnia. Ma ora il suo respiro significava che fosse ancora vivo.
Con cautela aprì piano la porta scricchiolante e osservò i loro corpi distesi, l’uno accanto all’altro, che respiravano beati. I loro visi affondavano con morbidezza sui cuscini.
Che volti sereni, pensò lei, sembrano in pace, come mai li aveva visti prima d’ora.
Clara chiuse con attenzione la porta e continuò a farsi guidare dalla torcia. Dalle tapparelle spiragli di luce filtravano, ostentavano la loro presenza sulle pareti opposte e la consapevolezza di un nuovo giorno. Spalancò le imposte della finestra e si affacciò nell’aria fresca mattutina.
La rugiada sulle piante nei balconi risplendevano di fronte al sole che sorgeva oltre i palazzi. La città all’alba si presentava come spenta. Nessun rumore in lontananza, nessuna presenza di anima viva. La città dormiva come i suoi abitanti. Le sembrava di osservare un ritratto, tutto era immobile e privo di calore. Era la sola a guardare questo deserto? Si chiese con amarezza e poi: è ciò che si proverà?
La solitudine. La disperazione dei sopravvissuti, la quiete dell’appisolato. E quando l’uomo comprenderà la sua condizione di vita si indebolirà portandolo alla malattia. Di conseguenza chiunque vedrà o udirà la depressione di quell’uomo o di qualsiasi altro, per empatia la proverà a sua volta, ne risentirà, e disseminerà il seme dell’infelicità prima del tempo. Chiunque si lascerà guidare da questo sentimento ne morirà, se non lo spirito, il suo involucro.
Alcune gocce di lacrime rigarono le guance, inumidirono il marmo del cornicione come rugiada. Si asciugò frettolosamente le lacrime. Non doveva piangere, non doveva assolutamente permetterlo.
Clara si diresse in bagno e si tuffò sotto la doccia. Dopo essersi lavata e vestita, organizzò le cose necessarie per la sopravvivenza: vestiti, medicine, provviste, oggetti per l’igiene personale e recuperò i soldi che aveva conservato di un salvadanaio, che ora in pezzi decorava il suo cassettone.
Prese tutto quello che poté e lo infilò in uno zaino che depositò nell’atrio. Doveva essere pronta a tutto, doveva essere in grado di affrontare delle emergenze.
Si diresse in cucina, si preparò un tè e spalmò la marmellata su qualche fetta biscottata.
Sua madre si svegliò, strascinò le pantofole in cucina e salutò la figlia con aria distratta e il viso impiastricciato dal sonno. Barcollò fino al televisore e lo accese, come ogni mattina, per seguire il telegiornale, per vedere se i media conoscevano una cura all’epidemia del sonno letale. L’avevano chiamata in svariati modi: “Sonnolenza letale”, “Sbadiglio mortale”, “Suicidio nel sonno” e con altri nomi che aumentavano l’allarmismo negli utenti.
Nonostante ne parlassero da almeno un mese, e le ricerche si fossero mosse per trovare una soluzione, ancora non era chiaro da cosa fosse provocato: le persone sbadigliavano e cadevano a terra come se fossero morte, non riuscivano più a svegliarsi, in nessun modo, e non reagivano neanche a nessun farmaco. Molti ricercatori, dottori e molti altri esperti, stavano man mano morendo perché lo sbadiglio mortale era contagioso, bastava vederlo o udirlo per giacere come la bella addormentata. Però non si trattava di un sortilegio del sonno e nessun principe sarebbe riuscito a salvarli, nemmeno con un bacio del vero amore.
Nessuna speranza in cui credere risorgerà.
«Mamma, spegni ti prego!» la sgridò, e con voce supplice aggiunse, «Potrebbe essere questa la causa…»
La madre la interruppe, «Dobbiamo sapere.»
Guardò l’orologio a muro, «È ora» pronunciò e alzò il volume della televisione.
Clara non sapeva se insistere e per qualche minuto lasciò correre.
E se sua madre avesse ragione e avessero trovato finalmente la cura?
Guardò speranzosa la sigla del telegiornale sorseggiando il suo tè.
Clara riteneva che il problema consisteva nella sfiducia nell’essere umano, nel Creatore, chiunque fosse. Non credere più al Bene, non credere più in nulla era probabilmente la causa del sonno mortale. Gli anziani erano i primi ad assopirsi, poi i depressi, gli uomini che non riuscivano ad arrivare a fine mese, chi non combatteva per la vita, quelli in fin di vita o con malattie incurabili, i senzatetto, coloro a contatto con i dormienti… e man mano si addormenteranno tutti.
Prima gli adulti, non più proiettati verso un futuro, e poi la gioventù che terminerà l’esistenza umana. Clara presumeva che ai suoi genitori mancasse poco. Aveva già perso i suoi nonni, non era andata a trovarli con i genitori, perché c’era il rischio del contagio. Lo avevano scoperto quando li chiamarono al telefono fisso e non risposero, ricevendo solo silenzio. Non verranno seppelliti, a nessuno assopito verrà organizzato un funerale. Non erano nemmeno dichiarati morti, perché, dicevano i medici, stavano solo sognando.
Clara spesso si chiedeva se un giorno, nel sonno, si rincontrerà con tutti gli assopiti, se quindi alla fine tutti sogneranno la stessa cosa. Speriamo sia un bel sogno almeno, pregò.
Categorised in: Racconti raccolti
This post was written by Federica Auriemma